Condividere spazi ed emozioni con altri esseri umani non fa bene solo all’umore, ma anche alla salute. È quello che hanno scoperto alla Brigham Young University dello Utah Julianne Holt-Lunstad e colleghi per mezzo di una ricerca basata appunto sugli effetti dei rapporti interpersonali.
Lo studio, pubblicato su Plos Medicine, ha appurato che le cause delle malattie non sono sempre e solo mediche: le relazioni sociali influenzano il rischio di mortalità e di contrarre una malattia tanto quanto gli altri fattori al punto da meritare “l’attenzione al più alto livello possibile nella determinazione della politica sanitaria”.
Per vivere sereni allora, oltre al classico “pensare positivo” – che tutti sanno quanto possa determinare il buon esito positivo non solo di sfide concrete, ma anche del semplice vivere bene con se stessi – pensiamo anche a stare tra amici o a fare una semplice telefonata alla persona giusta: queste cose possono davvero cambiare una giornata cominciata male! Inoltre è sempre bene integrare a tutto questo, attività fisica per allentare tensioni fisiche ma anche psicologiche, tanto che pure lo psichiatra Adolfo Petiziol consiglia “l’attività fisica ogni volta che si compila una ricetta farmacologica”
Gli effetti positivi delle relazioni sociali sono già da tempo tenute in larga considerazione dai diversi settori della psicologia: il benessere individuale è infatti il risultato anche delle relazioni con le strutture sociali e culturali. E molte ricerche lo hanno già comprovato. Ad esempio, avere uno scopo individuale – teoria degli striving di Emmons – ma anche nel contesto sociale – teoria di Cantor e Harlow – arricchisce positivamente le emozioni del singolo. Ovviamente questi fini cambiano nel tempo e a seconda della cultura di appartenenza.
Un’altra concezione, detta esperienza ottimale o flusso di coscienza punta invece sul coinvolgimento equilibrato tra sfida e abilità posseduta: si evita la noia, ma anche l’ansia da “prestazione”! È il caso degli artisti: sono totalmente assorbiti dall’attività tanto da scordarsi del tempo che passa. Lo stesso può capitare con le esperienze sociali, tanto che “l’identità di ruolo” – il percepire cioè una posizione nell’ambito socioculturale – ha una sorta di funzione protettiva: essere sposati, avere un lavoro, avere dei figli, aiuta a sviluppare benessere psicologico perché si sente di “essere importanti” e di avere un ruolo ben preciso.
Thoits affermava a riguardo che “coloro che assumono più ruoli sociali dovrebbero essere meno vulnerabili nei confronti di disturbi psicologici come ansia e depressione” – ipotesi conosciuta come teoria dell’accumulo di ruoli. Pare infatti che “chi ha più ruoli” sia più immune da ansia e depressione.
Il cosiddetto sostegno sociale apparso negli anni ’70 afferma proprio che i legami sociali non solo aiutano in caso di stress, ma diminuiscono il tasso di mortalità e di malattie.
Esiste pertanto una concreta relazione tra socialità, benessere psicologico e salute fisica. E a tal proposito esistono due modelli: quello diretto e quello indiretto. Il primo teorizza un influsso diretto del sostegno sociale sulla salute, indipendentemente da fattori stressanti, il secondo modello spiega invece quanto questi ultimi vengano resi meno potenti da risorse esterne, tra le quali l’aiuto degli altri. È proprio in caso di situazioni valutate come minacciose che il supporto altrui esplica al massimo la sua azione: non solo allieva lo stress, ma modifica letteralmente le funzioni cardiovascolari, il sistema immunitario e quello neuroendocrino (Uchino, Cacioppo & Kiecolt-Glaser, 1996; Eriksen, 1994).
In una concezione più ampia, sentirsi parte di un gruppo rappresenta ad ogni livello un forte fattore di appartenenza che dà sicurezza e mitiga le paure: a partire dalla scuola fino alle squadre sportive e ai partiti politici quel senso del noi aiuta a non sentirsi soli e favorisce il benessere e il minor senso di solitudine.
È vero che, come suddetto, il concetto di benessere muta nel tempo e a seconda dei punti di vista, a seconda cioè dei valori ritenuti importanti: ad esempio nelle culture individualistiche è l’autostima a influenzarlo maggiormente, mentre in quelle collettivistiche sono più importanti le qualità delle relazioni sociali. Ma è anche vero che è comprovato che stare in gruppo fa bene non solo all’umore. Basti pensare a quanto si chiudano in se stesse le persone schizofreniche o depresse e alla difficoltà che queste hanno nell’instaurare relazioni strette. Ignari dell’importanza delle relazioni sociali, si isolano e evitano i piaceri delle esperienze sensoriali.
Evitiamo per tanto di chiuderci in noi stessi, cerchiamo il contatto e il conforto degli altri, soprattutto laddove sembra non splendere il sole: cerchiamo supporto in chi è come noi perché appoggiarsi agli altri non è sinonimo di debolezza.
A volte chiedere aiuto è una forma di forza: ammettere di avere bisogni, accettarsi per quello che si è e accettare la realtà, è il primo passo per viverla meglio!
Valentina Nizardo