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Mamma-canguro: usa il proprio amore e non l’incubatrice

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Quasi sempre gli insegnamenti migliori ci arrivano da chi ha molto, molto meno di noi. L’amore di una mamma è qualcosa di immenso e io me ne sono resa conto a 33 anni suonati.

Quando avevo in grembo Matteo, rimasi allibita davanti al gesto di un’amica nei confronti di suo figlio. Avvicinò la bocca al suo nasino e aspirò in un sol colpo i muchi che ostruivano il respiro di quell’esserino.

“È così che fanno le mamme africane, – asserì con gli occhi che brillavano – in mancanza dell’aspira muco…”

Ebbene, la storia di un ospedale di Bogotà ha qualcosa di simile. Qui nel ’78 i soldi erano talmente pochi da non poter acquistare delle incubatrici. Fu allora che prese vita il metodo della “mamma-canguro“: il bimbo nato prematuro continua a crescere sul petto nudo della mamma, col suo calore, tra le sue braccia.

Una tecnica, quella della “mamma-canguro”, che sta prendendo sempre più piede anche qui da noi, a Torino, come a Trieste e a Roma.

Riccardo Davanzo, neonatologo al Burlo Garofolo di Trieste ha pubblicato uno studio su Acta Paediatrica che raccoglie l’esperienza della sua terapia insieme con quella di altri 8 paesi in 4 continenti.

Si legge:

La cura della mamma-canguro rafforza l’attaccamento fra madre e figlio, favorisce l’allattamento, ha effetti positivi sullo sviluppo e la serenità del bambino”.

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Dal contatto con la pelle della mamma ci sono solo benefici: il piccolo respira meglio e ha già modo di conoscere gli stimoli del tatto e dell’olfatto.

E quando a fare da canguro è il papà, i benefici sono gli stessi. L’importante è il calore, l’abbraccio, l’amore. Respirare con lo stesso ritmo, confondere i corpi.

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Giornalista pubblicista, classe 1977, laurea con lode in Scienze Politiche, un master in Responsabilità ed etica di impresa e uno in Editing e correzione di bozze. Direttore di wellme per tre anni, scrive per greenMe da dieci. È volontaria Nati per Leggere in Campania