È davvero curiosa questa notizia fornita dalle nuove linee guida statunitensi per la diagnosi e la gestione delle allergie alimentari, redatte sotto l’egida del National Institute of Allergy and Infectious disease e pubblicate sul Journal of Allergy and Clinical Immunology.
In pratica, più della metà delle persone che credono di essere allergiche in realtà non lo sono.
I dati sono abbastanza spaventosi se si pensa che ad una percentuale tra il 50 e il 90% dei casi di presunta allergia alimentare alla fine, dopo analisi più approfondite, non viene confermata la diagnosi iniziale.
L’errore può essere attribuito ai cosiddetti “test di intolleranza” come, per esempio, il Vega test, l’esame del capello o quello di citotossicità, che con i loro risultati fanno credere a persone sane di essere allergiche e quindi le spingono a eliminare dalla propria dieta alcuni alimenti e ciò porta anche alla possibilità di non assumere importanti nutrienti.
Jan Schroeder, allergologo dell’Ospedale di Niguarda a Milano afferma che:
“Quella delle intolleranze è “una moda”, a causa della quale sono in molti a privarsi senza fondamento scientifico di nutrienti importanti”.
Prima di eliminare definitivamente un alimento dal nostro menu non basta che sia stata riscontrata una reazione allergica in qualche occasione. Bisogna seguire delle regole precise come dice Gianni Cavagni, primario di allergologia pediatrica all’Ospedale Bambino Gesù di Roma:
“Intanto occorre che la reazione si presenti entro mezz’ora, al massimo due ore, dall’assunzione del cibo incriminato, oppure entro 36 ore, nel caso delle allergie di tipo ritardato”.
Se le manifestazioni allergiche sono immediate allora la conferma dell’allergia la si può avere tramite il Prick test. Questo esame consiste nel mettere a contatto con la pelle delle gocce di estratti di sostanze ritenute allergiche. Ma si possono anche eseguire gli esami del sangue per cercare le IgE specifiche responsabili della risposta immunitaria anomala verso quello specifico alimento.
Per essere proprio certi di essere allergici si possono anche effettuare delle prove più dirette: sotto il controllo medico si possono somministrare quantità sempre crescenti di cibi sospetti per verificare effettivamente la pericolosità di quei cibi. Ma Cavagni tiene a precisare un aspetto:
“Poiché l’esame non è esente da rischi in genere non viene effettuato tanto per confermare un’allergia, quanto per accertare che è stata superata, cioè che si è sviluppata una tolleranza, come spesso accade nei bambini col passare degli anni”.
Vanno fatte anche altre precisazioni sul tema dell’allergia. Infatti gli esperti americani dicono che:
“Se è vero, per esempio, che la presenza di una dermatite atopica aumenta il rischio di allergie alimentari e che gli asmatici possono avere le reazioni più gravi, ciò non significa che chi ha queste malattie debba evitare gli alimenti considerati allergizzanti quando non c’è prova che questi scatenino reazioni in quel determinato individuo”.
È anche vero che se ci potrebbe essere una predisposizione familiare alle allergie alimentari, ciò non significa che prima della comparsa dei sintomi bisogna privarsi di quel determinato cibo.
Per quanto riguarda la gravidanza, Cavagni spiega:
“Il discorso vale anche per le donne in gravidanza o che allattano. Non è mai stato provato che quel che mangia la mamma, o il piccolo fin dall’inizio dello svezzamento, modifichi le probabilità di sviluppare un’allergia alimentare”.
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Le linee guida stabiliscono chiaramente che:
“Non bisogna ritardare oltre il quarto-sesto mese di vita l’introduzione di alimenti solidi, compresi quelli noti per la loro capacità di scatenare allergie”.
Prima di quel periodo bisogna alimentare i neonati con il latte materno.
Quindi facciamo più esami prima di considerarci dei soggetti allergici così evitiamo ci complicarci la vita inutilmente.