Dal Regno Unito una proposta che sta agitando, e molto, il mondo scientifico: è tempo di smettere di spendere soldi in medicine inutili nelle ultime settimane di vita dei malati di cancro in fase terminale.
Lo dicono 37 studiosi di tutto il mondo guidati dal professor Richard Sullivan del King’s College di Londra, che dall’autorevole rivista Lancet Oncology, lanciano questo appello ai malati e alle loro famiglie, mostrando i risultati di 12 mesi di studi.
Ogni anno 12 milioni di persone ricevono una diagnosi di cancro e le previsioni stimano che la cifra potrebbe salire a 27 milioni entro il 2030. Nel frattempo, anche i costi per le cure lievitano vertiginosamente: nel Regno Unito la spesa per le terapie oncologiche è salita da 2 miliardi di sterline del 2002 ai 5 miliardi, mentre nel solo 2008, i costi mondiali diretti e indiretti hanno raggiunto un ammontare di circa 895 bilioni di dollari.
Dal 1970 al 2011 in Gran Bretagna i farmaci antitumorali sono saliti da 35 a 100 e solo negli ultimi 6 mesi ne sono stati approvati 8, medicinali venduti ad un costo medio di 2500 sterline a settimana. Numeri fuori controllo che spaventano e agitano i 37 guru della medicina firmatari del documento.
“I dati dimostrano – ha spiegato Sullivan in un’intervista alla Bbc- che una sostanziale percentuale delle spese per cure anticancro avviene nelle ultime settimane e mesi di vita dei pazienti. E che in larga percentuale queste cure non solo sono inutili, ma anche contrarie agli obiettivi e alle preferenze di molti malati e delle loro famiglie“. “Stiamo correndo lungo una traiettoria che non ci possiamo più permettere -continua il ricercatore- non basta tenere a freno i costi. Dobbiamo anche ridurli“.
Affermazioni che hanno fatto infuriare alcuni medici, perché non tutti concordano con l’idea sostenuta dallo studio. Secondo Andrew Wilcon, amministratore delegato della Rare Cancer Foundation “negli ultimi trent’anni, di fronte all’innegabile aumento ei costi, abbiamo raddoppiato il numero di vite salvate“. Anche Rose Woodward, professore del James Whale Found for Kidney Cancer, è convinto che Sullivan si sbagli: “esiste ad esempio un farmaco chiamato Sutent con cui abbiamo prolungato la vita di pazienti malati di cancro ai reni non per settimane, ma per anni“.
“In larga percentuale – afferma invece il professor Sullivan – alcune cure non solo sono inutili ma anche contrarie agli obiettivi e alle preferenze di molti malati e delle loro famiglie“, per questo bisognerebbe iniziare a tagliare dalle voci della spesa per le cure del cancro, quella dei trattamenti delle ultime settimane di vita.
Difficile inquadrare questo delicato dibattito, che unisce insieme la denuncia dell’annoso problema dell’accanimento terapeutico e della lobby dell’industria farmaceutica al sospetto di rischio di abbandono del malato, in un ottica manichea: impossibile capire chi siano, in questo scontro, i buoni e chi i cattivi.
I detrattori di Sullivan riducono la denuncia di Sullivan stesso ad una “proposta di sospensione delle cure anticancro per i malati terminali“. Ma a noi sembra doveroso riconoscergli il merito di aver almeno sollevato la problematica. Il suo è un attacco alla “cultura dell’eccesso“.
Perché se è vero che fin quando c’è una minima speranza si lotta fino alla fine e che la terapia è necessaria in tutto il periodo di cura, anche nella fase terminale, è altrettanto vero che si rischia facilmente di sconfinare in un eccesso terapeutico, quando di speranze in realtà non ce n’è. Si corre il rischio di incappare in situazioni estreme, in cui si aggiunge malattia alla malattia, mentre la strada giusta sarebbe solo quella di alleviare il dolore.
Ma si tratta di un equilibrio molto sottile, difficile da valutare.
Roberta Ragni