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“Non lo faccio più”: la violenza di genere spiegata ai ragazzi

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Violenza. Lacrime. Stupro. Il buio. Perché accade? Ancora, ancora e ancora.

Se lo chiedono in tante e l’unica sensazione che pare scaturirne è l’impotenza. Quella ingombrante percezione che no, la donna proprio non ce la fa a non far accadere cose simili e non ce la fa a spiegare all’uomo che cosa vuol dire essere stuprata.

Il senso di lacerazione che spezza in due anima e corpo.

E l’uomo – adulto o poco più che un adolescente -, lui davvero non se lo sa spiegare perché il suo genere spesso, più di quanto si pensi, reagisca così. Efferate repliche di qualcosa che cova inconsciamente nell’animo, la risposta agghiacciante a una primitiva frustrazione.

Frustrazione e inconsapevolezza. Proprio queste sono le prime parole che escono fuori dalla meravigliosa conversazione con Cristina Obber, giornalista, scrittrice, madre. Già autrice di “Primi baci” (Attilio Fraccaro), “Amiche e Ortiche” (Baldini Castoldi Dalai) e “La Ricompensa” (Emma Books), Cristina è di nuovo in libreria in questi giorni con “Non lo faccio più. La violenza di genere raccontata da chi la subisce e da chi la infligge” (Edizioni Unicopli).

Visto il numero di casi di violenza (92 casi di femminicidio in Italia dall’inizio dell’anno) – comincia a spiegarmi – mi sono chiesta come sia possibile che dei ragazzi qualunque, ancora innocenti, compiano atti simili“. Ragazzi qualunque. Ma siamo sicuri? Certo. Ragazzi dalla vita comune, fatta di musica e scuola, gli amici di sempre. E magari la prima fidanzatina che li pianta. Di qui, per alcuni, l’insicurezza, la paura, l’incapacità di gestire una frustrazione. E il baratro.

Non solo. Oramai i ragazzini associano un atto violento come lo stupro all’idea di un “semplice” sesso spinto, imbottiti come sono di stralci di pornografia strappati qua e là dal web.

Ascoltare. Ecco un’altra parola che fa di Cristina Obber un esempio da imitare. “Magari se io ascoltassi e poi facessi in modo che ragazzi e ragazze si ascoltassero tra loro e facessi capire loro quali sono le eredità da scrollarsi di dosso, qualcosa si muoverebbe e queste cose non succederebbero più“. Questa l’origine di “Non lo faccio più”. Ascoltare. E poi raccontare.

Assistere ai racconti di chi ha subito una violenza, cercare di capire i perché di chi, invece, la violenza l’ha inflitta. E tessere attorno a loro una tela di assistenti sociali, magistrati, psicologi, docenti, avvocati, funzionari del sistema penitenziario e associazioni con un unico scopo: combattere la violenza di genere.

Un lavoro tosto, quello di Cristina, che è andata su e giù nelle carceri e ha parlato con i detenuti per reati sessuali (quasi tutti maggiorenni… molti dei detenuti minorenni sono stati chiusi, dai loro stessi genitori, sotto una campana di vetro), in un miscuglio di rancore e pena.

Una volta dietro quelle sbarre ho avuto la sensazione che i carcerati stiano in realtà facendo un respiro profondo“, racconta Cristina “capire il senso del crimine che si è commesso è un percorso doloroso ma alla fine del tunnel chi lo ha percorso ne esce diverso“. Molti sono i programmi di riabilitazione cui i detenuti stessi chiedono di partecipare, ma le risorse sono sempre di meno: “Si tratta di iniziative sporadiche che invece dovrebbero essere rese obbligatorie e finanziate adeguatamente“, aggiunge Cristina.

In quest’ambito si inserisce il programma pedagogico: il libro è diventato pian piano un progetto nelle scuole, con l’obiettivo di fare formazione negli istituti superiori, promuovere un dialogo, imparare a pronunciare le parole “violenza di genere” e fornire supporto ai giovanissimi prima con un sito web – www.nonlofacciopiu.net – quale luogo di ascolto, e poi con la pagina Facebook .

Il viaggio nelle scuole è cominciato in Veneto, dove Cristina ha subito capito che i ragazzi hanno un gran bisogno di parlare e sono pronti a scardinare i pregiudizi assorbiti dai media. La soluzione secondo la Obber, infatti, sarebbe proprio quella di cominciare a “cambiare registro” e a dare il nome esatto alle cose.

Basta con titoli “impropri, sensazionalistici o banalizzanti”, questi non sono “delitti passionali” e quello non è un “raptus”. È qualcosa di più, qualcosa che proviene da molto lontano, è il frutto di violenze perpetuate, un epilogo prevedibile.

Il progetto arriverà nelle classi di quarta superiore milanesi con il patrocinio dell’assessorato alle Pari Opportunità della Provincia. Promosso dall’associazione “Donne in Rete” con la collaborazione delle associazioni “Maschile e Plurale” e “Amiche di Abcd”, sarà presentato il 25 ottobre alle 18 a Palazzo Isimbardi.

Intanto sabato 13 e domenica 14 si terrà a Torino “Mai + complici”, promosso dal comitato Se non ora quando torinese in cui Cristina Obber interverrà con “Riconoscimento della violenza” (qui il programma).

Non accettiamo nessuna modalità violenta. Parliamone, parliamo a nostri figli e diamo loro il nostro tempo. Facciamo nostro il sogno di riscattare tutte le donne del mondo che sono state picchiate, violentate. Donne che vorrebbero solo urlare la verità e non nascondersi più dietro le porte chiuse. Donne che hanno bisogno di noi.

(“Non lo faccio più. La violenza di genere raccontata da chi la subisce e da chi la infligge” – Edizioni Unicopli, 13 €)

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Giornalista pubblicista, classe 1977, laurea con lode in Scienze Politiche, un master in Responsabilità ed etica di impresa e uno in Editing e correzione di bozze. Direttore di wellme per tre anni, scrive per greenMe da dieci. È volontaria Nati per Leggere in Campania