Solo vivere il presente senza distrazioni può rendere felici. Ebbene sì. A chi non è accaduto di essere stato richiamato sulla terra mentre, lo sguardo perso nel vuoto, stava viaggiando tra i propri pensieri?
Essere contemporaneamente qui e altrove, il corpo in un luogo, la mente in un altro è causa di profonda insoddisfazione e di infelicità. A sostenerlo è una ricerca svolta da Killingsworth e Gilbert, due psicologi della Harvard University e pubblicata sulla rivista Science.
Gli studiosi hanno selezionato un gruppo di 2250 volontari ed elaborato una applicazione iPhone grazie alla quale i soggetti coinvolti nella ricerca venivano contattati casualmente per sapere cosa stessero facendo in quel momento, quali pensieri impegnassero la loro mente e se fossero felici o meno. I risultati? Il 46,9% delle volte la mente dei soggetti era altrove. Ciò significa che, mentre passeggiavano, mangiavano, erano davanti la televisione, questi volontari non erano pienamente immersi nell’attività svolta, la loro mente era perduta in spazi iperuranici o nell’infinitamente piccolo, in una parola: assente.
Per quanto riguarda lo stato di felicità vissuto, le persone coinvolte nello studio si sono dichiarate felici quando praticavano un’attività sportiva, conversavano o facevano l’amore, mentre erano infelici al lavoro, a casa davanti al computer e persino durante i momenti di riposo. Il dato interessante emerso dalla ricerca e che merita una riflessione è che sullo stato di felicità o infelicità il vagare della mente influisce in maniera molto più determinante rispetto all’attività concreta svolta. Killingsworth sostiene che “Il vagare della mente si verifica durante tutte le attività. E questo studio mostra che la nostra vita è pervasa, in misura davvero notevole, dal ‘non-presente. Di fatto, la frequenza con cui la nostra mente abbandona il qui e ora tende a essere predittivo dello stato di felicità più dell’attività in cui si è impegnati.“
Tradotto in dati numerici, ciò significa che l’attività concreta svolta incide sulla felicità di una persona per il 4,6%, mentre i viaggi della mente, persa nei suoi labirinti, influiscono per il 10,8%. Siamo allora soprattutto ciò che pensiamo? Aristotele definiva l’uomo come un animale razionale: è vero che lo sviluppo delle facoltà intellettive, la capacità di ragionare distinguono l’uomo dal regno animale, ma dobbiamo anche stare attenti.
Lo studio ha dimostrato che un pensiero totalmente avulso dalla realtà materiale vissuta è la causa e non la conseguenza dell’insoddisfazione. La capacità di progettare, di guardare oltre ci consente di dare un senso pieno al nostro oggi, ma forse c’è bisogno di imparare a rivalutare la banalità del quotidiano.
Dobbiamo allenarci a provare di nuovo la felicità dei bambini che giocano: sono totalmente immersi nelle loro azioni, interamente presenti a loro stessi ed al momento che vivono. Non è un esortazione all’irresponsabilità, ma un invito a cogliere ed apprezzare il sollievo, la serenità e persino la gioia che ci viene dalle azioni quotidiane, anche le più semplici ed ordinarie, quando le viviamo nella consapevolezza che sono il nostro presente, sono parte della nostra storia, di noi.
Francesca Di Giorgio