“Mangio questo dolcetto perché ho bisogno di una coccola” oppure “Ero tanto nervosa: me la sono presa con il vasetto di cioccolata“. Alimenti dolci o salati, snack, in genere classificati come non salutari: sono quelli che spesso sostituiscono o seguono una sfuriata, accompagnano un pianto solitario, un momento di rabbia, tristezza, frustrazione. Stati d’animo che scatenano la cosiddetta fame nervosa.
È il cibo che assume una valenza “altra” rispetto a quella che gli è propria, un ruolo del quale, ahimè, non è all’altezza: quello di compensare l’infinita gamma di emozioni negative che affollano la nostra esperienza quotidiana. Ma non solo. La valenza “sociale” del cibo non si limita ad una funzione consolatoria nei periodi in cui l’umore è decisamente a terra; a tavola si festeggiano le ricorrenze più significative della nostra vita: siamo soliti accompagnare eventi lieti anche con il mangiare bene.
Dunque la tendenza a mangiare di più non rappresenta solo una compensazione in caso di emozioni negative, ma può svilupparsi anche quando stiamo vivendo una circostanza particolarmente positiva? Pare proprio di sì. È la conclusione cui sono giunti i ricercatori della Utrecht University.
Si è trattato di uno studio complesso, pubblicato sulla rivista Appetite e composto di tre diversi test. Nel primo alcuni studenti universitari sono stati divisi in due gruppi: ad uno è stato chiesto di assistere a proiezioni che potevano suscitare emozioni positive – nel caso specifico era previsto, tra gli altri, un filmato nel quale una mamma panda veniva spaventata dallo starnuto rumoroso del suo cucciolo – mentre all’altro gruppo è stato sottoposto un filmato neutro sul piano emotivo – la ripresa di un volo di uccelli nel deserto.
Al termine delle proiezioni ai membri di entrambi i gruppi è stato concesso di mangiare dolci liberamente. Si è potuto così evidenziare che gli studenti del primo gruppo avevano assunto all’incirca 100 kcal in più rispetto a quelli del secondo che, durante il filmato, non avevano provato emozioni positive. Nel corso del secondo test, invece, gli studenti sono stati divisi in tre gruppi ed invitati a ricordare eventi positivi, neutri o negativi della propria vita. Al termine, anche in questo caso, è stato loro concesso di mangiare dolci a volontà.
È emerso che la rievocazione di eventi lieti o sgradevoli induceva all’assunzione della stessa quantità di snacks. Ma gli studiosi non si sono fermati: hanno infatti deciso di verificare le loro intuizioni con riscontri più vicini alla realtà, al di fuori dunque degli studi di laboratorio. Per questo motivo alcune studentesse sono state invitate a tenere per una settimana un diario alimentare, nel quale registrare tutti gli snacks che avrebbero assunto, registrando anche le emozioni vissute in quei momenti.
Da questo esperimento è emerso come fossero gli stati d’animo positivi ad indurre un maggior consumo di dolciumi o fuori pasto vari: si parla di 10 volte, rispetto alle 4 in cui la ricerca degli snacks era stata indotta da emozioni negative. Come commenta la dottoressa Alessandra Mauri, psicologa e psicoterapeuta presso l’Unità malattie metaboliche e nutrizione clinica dell’Ulss di Treviso “Se da un lato il desiderio di godere del buon cibo può essere favorito dal sentirsi bene, dall’altro il cibo può apparire ancora più buono proprio perché ci si sente già bene. Ma poiché oggi il cibo è facilmente disponibile e siamo sempre meno portati ad utilizzarlo solo per soddisfare le nostre esigenze biologiche, bisogna fare in modo di non “gestire” le nostre emozioni attraverso il cibo. La riposta a quello che proviamo non deve necessariamente passare dal frigorifero“.
Come abbiamo già detto, dobbiamo far attenzione a non caricare il cibo di una responsabilità troppo alta: se è bello festeggiare anche con il mangiar bene un evento lieto e se un cioccolatino può rappresentare il giusto tonico in alcuni momenti, l’idea di reprimere le emozioni negative riempiendo lo stomaco conduce soltanto ad un peggioramento della situazione. Nessun dolce potrà mai sostituire il conforto offerto da un abbraccio.
Francesca Di Giorgio
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