Il termine pet-therapy, neologismo anglosassone che indica una serie complessa di utilizzi del rapporto uomo-animale in campo medico e psicologico, è un termine molto in voga, ma spesso abusato. Occorre distinguere, infatti, tra: AAE, attività educative con l’ausilio di animali, che riguardano quelle in cui l’animale viene usato con finalità educative, Animal-Assisted Activities (AAA), ovvero attività svolte con l’ausilio di animali, e, infine, Animal-Assisted Therapy (AAT), cioè Terapie assistite dagli animali.
Solo l’AAT, un’attività terapeutica vera e propria, con caratteristiche specifiche, che si prefigge di migliorare le condizioni di salute di un paziente, può considerarsi Pet Therapy. Lo spiega su La Stampa Clotilde Trinchero, docente presso il Master in Pet-therapy e qualità della vita della Scuola Superiore di Formazione Rebaudengo di Torino: “le attività che comportano una relazione tra persona e animale non necessariamente rientrano sotto la definizione di pet-therapy“.
Gli animali rispondono a precisi requisiti, sono parte integrante dei trattamenti volti al miglioramento delle funzioni fisiche, sociali, emotive e/o cognitive nonché della salute del paziente. È una terapia di supporto che integra, rafforza e coadiuva le terapie convenzionali per la patologia considerata. E può essere impiegata, nelle varie patologie, con obiettivi cognitivi, di miglioramento di alcune capacità mentali, comportamentali, per il controllo dell’iperattività, rilassamento corporeo, acquisizione di regole, psicosociali o psicologiche (trattamento della fobia animale, miglioramento dell’autostima). L’AAT è gestita da professionisti di sanità umana, è parte integrante della loro attività e deve essere necessariamente documentata e valutata.
E l’ippoterapia? Questa parola etimologicamente significa “curare mediante il cavallo“. Si può infatti definire la Riabilitazione Equestre come l’insieme di quelle tecniche che sfruttano in vario modo il rapporto che si istaura tra il cavallo e il paziente umano. “L’idea di utilizzare i cavalli in medicina – spiega sempre a La Stampa Maria Pia Onofri, pediatra e neuropsichiatria infantile del centro – risale addirittura al tempo di Ippocrate. Il concetto di fondo è quello di utilizzare il cavallo al passo, facendo sì che il cavaliere sperimenti una sensazione simile a quella del cammino umano. Diversi studi hanno dimostrato che, quando si provano forti emozioni, si attivano nuove e diverse vie nervose, molto utili in riabilitazione“.
Per questo l’ippoterapia può curare patologie neurologiche come la paralisi cerebrale infantile. “Questi bambini – aggiunge la dottoressa – spesso non raggiungono neppure il controllo del capo e del tronco e la terapista sale con loro a cavallo. L’animale non ha la classica bardatura, perché la riabilitazione è diversa dallo sport equestre. L’uso di una copertina e di un fascione per reggersi permette al bambino di provare le emozioni che il movimento del cavallo, il suo essere vivo ed empatico, suscita. Inoltre il bambino deve aggiustare la posizione, modificata dal passo dell’animale, e l’esercizio permette un miglioramento del controllo di sé“.
L’ippoterapia, oltre che nei casi di ritardo mentale o di autismo, è stata sperimentata anche nella riabilitazione di chi ha subito l’amputazione di un arto: “abbiamo osservato che, se il trattamento fisioterapico classico viene integrato dall’ippoterapia, con un progetto terapeutico condiviso, il recupero è più breve e l’accettazione della protesi migliore“, conclude la Onofri.
Roberta Ragni
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