depressione solitudine convivenza

Solitudine e depressione, come sconfiggerle

Condividi su Whatsapp Condividi su Linkedin

Stare con gli altri, avere un compagno, degli amici. Veri. La solitudine? Può essere una brutta bestia. D’altronde, l’uomo è un animale che deve vivere in branco, necessariamente. Lo dice la quotidianità. La vita di una casa, di un pavimento da calpestare, di una finestra da aprire, il più delle volte sembra avere un senso se e solo se si vive almeno in due. Inutile sforzarsi, convincersi che “sto meglio da solo”. Non ce la si fa, se la solitudine può creare quel circolo vizioso di perché e di per come, di ragionamenti che spesso ti fanno impazzire.

Scienza conferma? Pare di sì. Uno studio del Finnish Institute of Occupational Health finlandese dice che non solo la solitudine può portare a problemi di salute mentale negli anziani e nei genitori single, ma può far cadere in depressione anche i più giovani, coloro che si trovano in piena età lavorativa.

I ricercatori hanno seguito per 7 anni 3.500 persone in età lavorativa, confrontando i fattori di rischio psicosociali, socio-demografici e sanitari, tra cui fumo, alcolismo, scarsa attività fisica e uso di antidepressivi. “Il nostro studio – ha detto la ricercatrice Laura Pulkki-Raback – dimostra che le persone che vivono sole hanno un rischio maggiore di sviluppare la depressione. Nel complesso non abbiamo riscontrato alcuna differenza nel rischio di incorrere nella depressione tra uomini o donne che vivono da soli. Condizioni abitative disagiate nelle donne, e mancanza di sostegno sociale in particolare per gli uomini, si sono rilevati i fattori principali di esposizione al rischio“.

Nelle donne, un terzo del rischio infatti si può attribuire a fattori socio-demografici, come la mancanza di istruzione o il basso reddito, mentre per gli uomini i maggiori fattori di rischio sono, manco a dirlo, la difficile congiuntura economica, problemi sul posto di lavoro o nella vita privata e la dipendenza da alcol.

Insomma, la solitudine è un lusso che non ci si può sempre permettere, ma, suvvia!, talvolta è costruttiva. Mi viene in mente che gli inglesi in questo senso si esprimono meglio e distinguono tra “loneliness” e “solitude”: il primo termine ha una connotazione negativa e indica un senso di isolamento, il secondo, solitude, indica invece lo stare da soli senza sentirsi soli. Sfumatura che nella lingua italiana sembra perdersi. E vivaddio, ogni tanto ci starebbe tutta!

In pratica? Aprezzatela la solitudine, quella che vi sorride. Spegnete qualsiasi cosa vi faccia entrare il mondo intero a casa. Relazionatevi a voi stessi, sforzatevi di percepire la vostra voce e quello che ha da dirvi. Per un po’ fate gli eremiti.

Poi? Abbiate cura di voi e delle persone più care. Sempre.

E voi? Come considerare la solitudine? Ne sentite il bisogno o la evitate accuratamente?

Condividi su Whatsapp Condividi su Linkedin
Giornalista pubblicista, classe 1977, laurea con lode in Scienze Politiche, un master in Responsabilità ed etica di impresa e uno in Editing e correzione di bozze. Direttore di Wellme.it per tre anni, scrive per Greenme.it da dieci. È volontaria Nati per Leggere in Campania.