“Perché restare soli fa male anche ai duri” cantava qualche anno fa Vasco Rossi. Ora, le teorie del cantante trovano una preoccupante conferma nella comunità scientifica.
John Cacioppo, neuroscienziato e direttore del Center for Cognitive and Social Neuroscience all’Università di Chicago, pubblica sul numero di dicembre del Journal of Personality and Social Psychology, i risultati del suo studio sulla solitudine. Cacioppo è stato ospite di recente al festival della Scienza di Genova e, in occasione del suo intervento, ha spiegato le conclusioni raggiunte in anni di ricerca e già contenute nel suo libro “Solitudine. L’essere umano e il bisogno dell’altro”.
Essere soli fa male, nel senso anche fisico del termine. La solitudine produce nel nostro organismo gli stessi effetti nocivi della pressione alta, del fumo, dell’obesità. Inoltre favorisce gli stati depressivi, la mancanza di controllo nelle abitudini alimentari e i comportamenti ostili nei confronti di coloro, tutti gli altri, che ignorano il nostro bisogno di contatto.
“Per molto tempo abbiamo creduto di essere soggetti solitari e autonomi», ha spiegato Cacioppo, «in realtà siamo nati per avere relazioni con altri essere umani». Lo scienziato conferma, dunque, la tesi millenaria di Aristotele, secondo il quale “l’uomo è per natura un essere sociale”, ma si spinge oltre, individuando nella solitudine un fattore che può portare ad una mortalità precoce.
Non stiamo parlando del beato isolamento di chi ricerca la mancanza di contatti per portare a termine un lavoro creativo, come scrittori, pittori o artisti. Parliamo di quello stato d’animo di emarginazione, di quel sentirsi separati dalla comunità che provoca un intenso dolore emotivo, difficile da elaborare e da affrontare. E, per ciò, estremamente dannoso.
Un tempo si imputava la mancanza di relazioni alla timidezza o ad una scarsa predisposizione soggettiva ai rapporti sociali. Oggi la scienza conferma che l’incapacità di tessere rapporti intensi, basati su una comunicazione profonda e non su scambi occasionali, ha una base genetica. In più la solitudine, acquisita nel corso dell’esistenza o ereditata insieme al colore dei capelli e degli occhi, oltre a essere dannosa per la vita dell’individuo è anche contagiosa.
Chi si sente solo, infatti, tende ad avere un atteggiamento di sfiducia e di pesantezza (lamento reiterato, pessimismo cosmico e ansia crescente) che si riflette sugli altri. Dopo qualche tempo, gli amici dell’orso finiscono per isolarlo sempre di più, perché stare con una persona triste e sola è poco piacevole, implica un buon equilibrio interiore che viene costantemente minacciato e a lungo andare può diventare un’esperienza faticosa e impossibile.
L’individuo solo viene relegato ai margini della società, spesso si sposta anche in periferia, (lo studio americano forse non tiene conto dei prezzi degli affitti nel centro delle città italiane) dove finisce per perdere anche gli ultimi contatti.
Cosa fare per non cadere in questa brutta trappola? John Cacioppo ci fornisce la sua soluzione. «Cercare sempre di migliorare, non smettere mai di provare. Aiutare gli altri, tramite servizi alla comunità. Trovare amici con cui si abbiano affinità. Infine, pretendere sempre il meglio, non accontentarsi».
Fiammetta Scharf