La malattia di Alzheimer è una demenza degenerativa invalidante che si manifesta anche oltre i 65 anni (ma può manifestarsi anche in epoca presenile).
La sua ampia e crescente diffusione nella popolazione – in Italia i malati di Alzheimer sono circa 500 mila oltre i 60 anni – l’assenza di una valida terapia, e gli enormi impatti in termini di risorse necessarie (emotive, organizzative ed economiche) che ricadono sui familiari dei malati, la rendono una delle patologie a più gravi impatto sociale del mondo.
Da oggi, una scoperta tutta italiana, pubblicata su Nature Neuroscience, potrebbe aprire nuove prospettive di cure e, soprattutto, di diagnosi precoce, con la speranza di interventi preventivi che allontanino la malattia.
I ricercatori Telethon dell’Irccs Fondazione Santa Lucia e dell’Università Tor Vergata di Roma, guidati da Francesco Cecconi, hanno chiarito i dettagli molecolari alla base della mancata comunicazione fra le cellule nervose che nel tempo porta alla perdita della memoria e al deterioramento mentale tipico di questa grave patologia.
Ad oggi, non è ancora ben chiaro quali siano le cause della malattia di Alzheimer. Esistono però delle rare forme ereditarie che, in genere, si manifestano più precocemente: studiare le forme genetiche ereditarie può quindi rivelarsi molto utile anche per una comprensione più generale della malattia.
Spiega Cecconi:
“Abbiamo analizzato topi geneticamente modificati affinché sviluppino una forma ereditaria e precoce di Alzheimer e abbiamo visto che una particolare proteina, la caspasi 3, ha un ruolo chiave nella perdita di connessione fra le cellule cerebrali”.
Nell’Alzheimer, infatti, i neuroni perdono la capacità di dialogare tra loro e stabilire contatti attraverso le sinapsi nella zona dell’ippocampo, e la caspasi 3, nei test effettuati dai ricercatori, risultava particolarmente attiva nelle sinapsi al momento della comparsa dei primi deficit di memoria nel modello animale della malattia.
“Si può pensare di mettere a punto un sistema di diagnosi precoce dell’Alzheimer: finora non esiste un marcatore che segnali per tempo la malattia. Un domani invece, potrebbe essere possibile verificare i livelli della caspasi 3 nel liquido cerebrospinale, con una puntura lombare o addirittura valutando i suoi livelli ematici. Se troppo elevato, sarebbe un segnale d’allarme e darebbe la possibilità di intervenire per prevenire il danno cerebrale”.
Aggiunge Cecconi:
“I topi del nostro studio sono stati trattati con inibitori della caspasi 3, e i loro sintomi sono regrediti. Certo, negli esseri umani è più complicato. Bisognerebbe mettere a punto un farmaco efficace che blocchi l’attività di questa proteina e sia in grado di superare la barriera ematoencefalica che protegge il cervello. Noi abbiamo fatto un primo passo in questa direzione”.
E speriamo di arrivare presto a destinazione…