Due pazienti su tre vivono almeno 5 anni dopo la diagnosi di un tumore.
Dopo 40 anni dal National Cancer Act, la legge con la quale, nel 1971, l’allora presidente statunitense Richard Nixon prometteva finanziamenti alla ricerca e rendeva indipendente il National Cancer Institute americano, la sopravvivenza media per tutti i tipi di tumore è aumentata del 18%.
Sono i dati che snocciola George W. Sledge, presidente dell’Asco, l’American Society of Clinical Oncology, al meeting annuale della Società svoltosi a Chicago.
È qui che gli esperti hanno considerato ogni singolo tumore una malattia “rara”, ognuno con una propria “carta di identità genetica” e capace di comportarsi in maniera differente nei confronti della terapia.
In pratica, si costruiscono delle mappe del Dna di singoli tumori con le diverse mutazioni, di modo che i medici siano in grado di identificare le cure più appropriate caso per caso e adattarle alle modificazioni cui va incontro il tumore nel tempo.
Veri e proprio “atlanti genetici“, insomma, che ci potranno aiutare a prendere la direzione giusta nella cura di una neoplasia, ma non manca una critica. “La sopravvivenza è migliorata, ma l’incidenza non è diminuita — denuncia Sergio Pecorelli, direttore dell’Oncologia all’Università di Brescia e presidente dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco — perché lo Stato, in questo, investe sempre poco. Come del resto investe poco anche nella ricerca di base che, nel (quasi) 100% dei casi è pubblica“.
Germana Carillo